Quando i miei occhi da yogin incrociano la mancanza di amore.
Sabato pomeriggio a Milano, uno dei tanti, uno dei soliti. Pieno di gente in giro, ricco di solitudine, il mio sempre alla spasmodica ricerca di qualcosa che mi ricordi il piacevole gusto del vivere che avevo quando abitavo a Roma.
Pranzo tardi, raggiungo una pizzeria al taglio, una di quelle in franchising di cui Roma è piena. Ne hanno aperta qui una in corso Buenos Aires, pranzo lì verso le 15 e qualcosa, a servirmi al bancone è una ragazza romana e per me è subito casa, finalmente.
Esco, percorro tutto il vialone proseguo per corso Venezia giungo giù giù a San Babila, direzione Duomo per vie inesplorate, scopro palazzi antichi, leggo totem e targhe in marmo ricchi di riferimenti e racconti storici, sbuco in piazza Fontana, passo per il palazzo Reale e raggiungo due amici, lui Antonio del mio gruppo romano, lei Maria la sua fidanzata. Si son trasferiti a Milano da pochi mesi, qualche volta ci vediamo, poche volte in realtà complici il tanto lavoro e la pandemia ancora in giro.
Passeggiamo, prendiamo un dolcetto insieme, chiacchieriamo al calduccio di una caffetteria nei pressi dei resti romani.
Arriviamo sino alla metro Cadorna, ci dividiamo, loro prendono la linea rossa, io la verde per Lambrate.
Prima di arrivare a casa, passo dal supermercato, faccio la spesa per la settimana, ho due sacchettoni belli pesanti a discapito delle mie spalle malate, procedo verso casa, poco più di 500 metri.
Sono le 18 e trenta, il buio è calato, percorro la solita strada quella che passa per gli alberelli di ciliegio, in questo periodo dormienti.
Ci sono tre panchine, le solite tre, quella centrale più illuminata di tutte. È l’unica che accoglie qualcuno, da lontano mi accorgo essere un “ragazzo” della mia età o poco più.
Indossa una maglia della tuta, ha una manica tirata su e il braccio disteso, illuminato in pieno da uno dei lampioni del vialetto dei ciliegi.
Cammino con i miei tacchetti insolitamente rumorosi, ho messo gli stivaletti di Mary Poppins che son belli comodi e caldi.
Mi avvicino, vedo i suoi buchi coperti da gocce di sangue, vedo la siringa, non può fermarsi ma non vuole spaventarmi, si gira, gira il braccio perché io non veda, ma avevo già visto e ho avuto compassione.
Compassione. E mi sono chiesta se fosse la yogin che è in me ad avere quella reazione.
Proseguo verso casa, incrocio due ragazzi di vent’anni, lei allegra racconta qualcosa a lui che divertito sta ad ascoltarla. Spero non vedano quel che ho appena visto. Perché il dispiacere che provo per quell’uomo è grande, quasi insostenibile.
Mi riporta indietro nel tempo, quando da adolescente in giro per i Sassi (i quartieri antichi di Matera la città da cui provengo), allora ancora in stato di abbandono, stavamo attendi a non calpestare le siringhe che capitava di trovare agli angoli degli scalini o nelle case aperte e abbandonate. Oppure a Bari quella volta, anni ottanta, ancora bambina, quando mi accorsi di una montagnetta di siringhe per terra in un angoletto di un parco.
Ma più di tutte mi torna in mente Roma, 24 anni i miei, metro B, sono di ritorno a casa dopo uno dei miei sabato pomeriggio trascorsi a passeggiare nella storia. Son passati diciotto anni ma è nitido negli occhi il volto del ragazzo seduto davanti a me, sembra addormentato, è estate ha le maniche corte, la metro viaggia veloce, lui sballottolato da una parte all’altra fra tre sedili vuoti, io di fronte, le sue braccia penzoloni ruotano, sono una costellazione di piccole ferite. Di buchi da siringa per la precisione.
Ero già una yogin, lo son sempre stata, e la compassione fu grande.
Ed è grande, scatena un senso di impotenza tale in me. In me che ringrazio il mio corpo ogni santo giorno, scrigno prezioso della mia vita, delle mie gioie e anche dei miei dolori.
E mi chiedo quanto grandi siano il dolore e lo smarrimento di un uomo giovanissimo come quello incontrato in metro a Roma anni fa, e quanto amore mancato deve patire l’uomo della mia età incontrato alle 18 e trenta di ieri a Milano. Nel mio quartiere tranquillo.
Lo yoga mi ha salvato la vita tante volte, e continua a farlo. Ieri mi son ricordata perché ho deciso di diventare insegnante:
vorrei che lo yoga salvasse quante più vite possibili.
Amatevi, respirate.
Michela dice
Carissima Nancy, mi piace molto quello che tu racconti, sembra di aver vissuto con te questa giornata, sei fantastica! Quando ero ragazzina, tra i 13 e i 17 anni le mie domenica le trascorrevo più o meno così, in compagnia di due o tre amiche, mi divertivo molto. Puoi immaginare quanti ne potevamo incontrare di quei personaggi che cercavano di spaventarci, ma ora che ho un’altra età posso dire che quelli spaventati, soprattutto della vita erano loro. Cmq, sono rimasta scioccata di quello che c’era tra le vie dei Sassi, non ne ero assolutamente a conoscenza! Mi piacerebbe praticare lo yoga, dai organizziamo!!! Un grande bacio!
Nancy dice
Grazie Miky per il tuo commento e per la tua condivisione.
Organizziamo volentieri la pratica yoga insieme, ne sarò felice 🙂
A presto, un abbraccio grande!